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La scatola e i colori

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Altrimenti detti il rigore e la creatività

Pubblicato il 28/10/2019 da Enrica Severi
La scatola e i colori

Nietzsche, in una fase embrionale del suo attento lavoro di decostruzione dei principi della cultura occidentale, era andato a riestimare l’integrità della tragedia greca, nella quale venivano con minuzioso equilibrio incastonati i principi del caos istintuale e dell’ordine razionale. In quello che il Nichilista descriveva essere un “miracoloso atto metafisico”, il Dionisiaco e l’Apollineo danzavano avvinti in un bilanciato incastro karmico, a testimonianza della doppia natura dell’essenza umana, e dell’indissolubilità di questi due principi elementali.

Senza l’uno, l’altro entrava in squilibrio. Ed entrambi concorrevano ad esprimere in massimo grado corpo, anima e spirito dell’uomo, come nella raffigurazione del Caduceo di  Mercurio.

Si susseguono epoche storiche dell’uomo, e si alternano tempi in cui vengono alternativamente negletti o riesplorati gli aspetti più oscuri della psiche umana, per ritrovare poi nelle parole di Bateson, questo stesso principio Nietzscheano nel suo sostenere che a rappresentanza dell’equilibrio morfogenetico e dell’espressione della potenza dell’uomo di porsi nella spirale del tempo, sia la perfetta commistione del Rigore e della Creatività. Dove “l’uno senza l’altra è morte per asfissia, e l’altra senza l’uno, mera follia” (Bateson, 1977).

 

Sì… ma come possono variamente interagire queste due anime?

 

Laetitia è tempera pura.

Mentre parla, tra le sue parole viene narrato il suo espandersi. Il suo irradiarsi fino a disperdere la sua forma.

Laetitia, una seducente giovane donna avvolta nei lunghi capelli castani. Gli occhi lucidi, a denunciare nel suo affidarsi una profonda sete di risposte, a sedare l’ansia con cui questo quesito (“Dottoressa, come posso fare a trattenermi, a farmi con-tenere, in questo mio dilagare?”) ha cominciato a vessarla, mentre attorno alle sue parole affiora, non cosciente, il riecheggiare di un bisogno.

Laetitia che non ha mai conosciuto un confine.

Laetitia che sbaraglia, onnipotente, ogni confine.

Che sta dilagando incontrollata, incontenuta e si sta consumando.

Laetitia che ha fame di vita ed emana solarità.

Laetitia parla di come finisca sempre per sentirsi sbagliata; sì perché Drew le chiede ripetutamente di accontentarsi, di farsi bastare quello che le dona, per cui sente di prodigarsi massimamente. E parla di come lei chieda a Drew sempre quel qualcosa in più, non perché non apprezzi tutto quello che possiedono e che si concedono, ma perché ha bisogno di riempire tutto lo spazio, tutto il tempo, che c’è.

Mentre parla, gli occhi di Laetitia raccontano la razionalità di Drew, quella segmentazione ponderata sotto cui sente di dover “cambiare sé stessa”.

Drew, gli occhi di ghiaccio. La dignità passata della difesa che si porta sempre addosso. Che esule e sinceramente rassegnato attesta come non sappia più quale strategia tentare per salvare il loro amore, perché lei lo sta consumando con questa sua inconsapevole pretesa di onnipresenza.

Perché il dilagare di lei invade la possibilità di accettazione di lui e soprassiede i loro concordati scalzando quei tanto consumati (o forse sarebbe più corretto dire “masticati”) confini che invano questa coppia tenta di condividere.

 

 Sento che Laetitia è colore, è tempera. Colore liquido che scorre senza forma né contenimento, e sì: irradia dove passa; ma sì: si dissipa fino ad esaurirsi; e sporca: dove il colore sovrasta superfici già dipinte. Glielo rimando.

Sento che Drew è una figura geometrica. Rigidamente delimitata e regolata. Baluardo sicuro. Fortezza e protezione. Talmente neutra e chiusa da essere ferma. Glielo rimando.

 

La coppia si scopre mentre vado a giocare con i loro concetti rinarrando le loro parole.

Drew potrebbe essere la scatola che può contenere quei colori; l’elemento disciplinatore che designi le rotaie e i solchi entro cui quella tempera possa scorrere e mescolarsi.

Così la scatola, da sola monocromatica e appiattita in una bidimensionalità anonima, recupererebbe con la tempera luce e spessore, un carattere unico ed irripetibile.

Così la tempera, da sola senza una direzione, esplosiva e confusivamente invadente e soverchiante, diventerebbe opera d’arte, spirito di vita nella materia, sole sulla natura. L’elemento che renderebbe unica la sfumatura caratteriale della scatola.

 

Il rigore e la creatività. Il dionisiaco impulso ad essere e a nutrirsi e l’apollineo criterio disciplinante e spazzino.

Se non nel loro confluire vicendevole, nel loro euristico definirsi e stratificarsi, non sarebbe arte.

 

Laetitia e Drew potrebbero essere arte.

 

Ma oggi Laetitia e Drew stanno insieme nella pretesa di un completamento personale da parte dell’altro. È la metafora degli atomi a parlare per loro: ioni di polarità opposta che si attraggono chimicamente per completare l’ottetto che renderebbe stabile l’equilibrio elettrico dell’atomo così composto; ma che, da soli, schizzano sotto la pressione delle forze elettromagnetiche del loro essere incompleti, di quell’orbitale con elettroni mancanti che li fa sentire vuoti e soli.

Ma Laetitia e Drew potrebbero fare come i gas nobili, come quell’elio senza polarità ioniche, che da solo non risente dell’attrazione gravitazionale degli incompleti attorno a sé, ma che quando riconosce un elemento simile può scegliere di unirvisi, amplificando il proprio potere individuale e creandone uno di coppia.

Così la scatola sarebbe contenimento protettivo, anziché rigida castrazione, e le tempere sarebbero viva irriverenza, anziché follia disordinante.

 

Come facciamo danzare scatola e colori?

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Questo articolo è stato scritto da Enrica Severi

enricaseveri

Psicologa e Psicoterapeuta

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E-mail: enricaseveri@psicologiafacile.it