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Relazione e contenuto nella definizione adolescente borderline

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Pubblicato il 06/05/2015 da Enrica Severi in Famiglia, Generale
Relazione e contenuto nella definizione adolescente borderline

Passeggiando fra i pensieri, come ispirata dai cari Colleghi nei precedenti articoli del blog di questa nostra importante piattaforma conoscitiva di Psicologia Facile, mi sono imbattuta in un sentiero cui è capitato di palesarsi nei miei incontri con adolescenti e giovani adulti in terapia, ma che ogni volta sembra riservare nuovi risvolti, sfumature inesplorate, che richiedono l’attivazione di un occhio curioso (Cecchin, 1988) e la voglia di lasciarsi narrare (Sluzki, 1991), affinché il nostro percorrerlo possa essere funzione di ponte, sostanziarne la via, e non dissodarne il terreno.

Parlare di “disturbo borderline in adolescenza” implica l’attivazione di due parametri imprescindibili, da tenere costantemente a mente affinché le nostre riflessioni possano essere ben contestualizzate, che fanno riferimento da un lato alla specifica e critica fase evolutiva in cui si inscrive l’osservazione diagnostica che andiamo ad affrontare, dunque l’aspetto processuale dell’oggetto in esame, e, dall’altra, alla schematicità delle diagnosi Dsm cui si è finora fatto riferimento, che risultano fin da una subito dissonanti nel loro pragmatismo rispetto alla flessibilità richiesta dalle analisi effettuate su tale fase evolutiva. L’adolescenza infatti, a causa della sua specificità, non si presta a definizioni esaustive, ma incarna in sé l’essenza del cambiamento. È una fase evolutiva trasformativa e processuale ed è praticamente impossibile in essa definire diagnosi stabili.

(D’altro canto, il sistema nosografico cui si è fino a poco fa fatto riferimento, DSM IV-TR, stabiliva il disturbo di personalità come “un modello d’esperienza interiore e di comportamento che deviava marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo in modo pervasivo, inflessibile e stabile nel tempo”.  Un primo punto su cui riflettere sarebbe proprio l’opinabilità di ottenere parametri di riferimento chiari da questa definizione essendo “aspettative” e “cultura” due concetti non oggettivabili, comprendenti anche i mandati dei vari sottosistemi generazionali, che richiederebbero quindi la conoscenza delle tradizioni di devianze inscritte nella società in esame, che però non siano in dissonanza con la cultura di riferimento, da poter escludere dalla diagnosi. Difficoltà maggiorata dal fatto che nulla è stabile e precisamente definibile in questa fase di transizione e trasformazione. Appare chiaro, pertanto, come sia indispensabile in adolescenza, ancor più che in altre fasi del ciclo esistenziale prese in esame, mantenere l’attenzione sul processo, per la definizione di una modalità descrittiva ottimale nell’enucleazione della diagnosi.)

Nel tentativo di superare l’obsoleta dicotomia fra normalità e patologia, una componente decisiva da dover stimare sarebbe proprio quella sociale e culturale: questo confine è storicamente determinato, pertanto mutevole; questo riconferma l’insufficienza di un’enunciazione categoriale e la necessità di integrare aspetti culturali contingenti.

Ma addentrandoci nel merito dell’adolescente problematico, uno dei capisaldi cui ancorarci riguarda innanzitutto il trovarsi di fronte ad un’identità complessa, articolata minuziosamente nella sua impalcatura, per cui diventa necessario armarci di una visione multipla per ricostruirla: dall’esplorazione delle aree di vita, alle relazioni affettive, agli interessi e alle propensioni, le risorse oltre alle vulnerabilità ecc. Le difficoltà che si possono incontrare con questo tipo di utenza sono relative a diversi elementi; fra i più immediati e critici c’è l’accettare con difficoltà, da parte dell’adolescente problematico, una proposta conversazionale: nel dialogo aperto e scoperto prevarrebbe fortemente la paura di vedere invaso il proprio Sé, il proprio mondo intimo di cui nemmeno lui riesce a stimare con esattezza i confini e che, pertanto, difende aspramente da qualunque cosa, a cui non sappia dare un nome, che possa anche lontanamente avere un sentore di minaccia; questi adolescenti possiedono poco in termini di consapevolezza di Sè e non consentono ad altri l’esplorazione; il senso di minaccia è ipertrofico e non riescono a fidarsi dell’adulto, non si identificano quindi nell’adulto, probabilmente non vogliono diventarlo.

Nucleo di base, questo, da cui dipartono il ricorso alla manipolazione e alla menzogna, l’artificiosità comunicativa, l’anestesia emotiva, soprattutto nei tratti narcisistici e antisociali. Con tratti e comportamenti autolesivi, talvolta veri e propri equivalenti parasuicidari, assistiamo già ad un tentativo maggiore di disvelamento di Sé. Nei casi più resistenti ci si può trovare di fronte a reazioni connotate dal bisogno di scaricare immediatamente nell’azione ogni stato di tensione psicologica avvertito come intollerabile con modalità esasperatamente antisociali, aggressive e autolesive; in questi ragazzi, la scarsa capacità di rappresentazione a livello mentale delle proprie difficoltà o del proprio dolore, li rende estremamente difficili da avvicinare sul piano psicologico. La loro principale modalità di relazione è fondata su di un agire spesso aggressivo, verso gli altri e/o verso se stessi. Un potenziale punto di contatto potrebbe essere, pertanto, quello di insegnare loro, prima di tutto, cosa sia un adulto: l’adolescente problematico, che diffida dalla proposta conversativa, ha comunque bisogno e diritto di capire; indirettamente pone delle domande.

Le tipologie di intervento che si potrebbero attuare sono fondamentalmente di due tipi: quelle che hanno un’impronta più strettamente legata al “dirigere” e quelle più specificatamente volte al “contenere”, le cui sfumature di significato sono sottili ma importanti. Se prendiamo, per esempio, l’adolescente con comportamento aggressivo, il problema per lui non sarebbe l’espressione, quanto piuttosto la regolazione dell’emozione: il suo bisogno profondo, non coscientizzato, sarebbe presumibilmente quello di un adulto che gli si ponesse davanti e lo contenesse, anche fisicamente, a fronte della sua esplosione, che definisse per lui ed insieme a lui il suo confine, per cui il problema per il clinico consisterebbe nel trovare la giusta modalità di presenza (in quanto non dobbiamo dimenticare che, per quanto inconsapevolmente, l’adolescente si aspetta che l’adulto ci sia), nel riuscire a comunicargli che non lo si sta invadendo, ma che si è presenti nella relazione, che “si è” con lui. A quel punto se il ragazzo non rispondesse, o rispondesse in modo da minacciare la relazione, tale agito sarebbe da considerarsi un buon indicatore dell’emersione dell’autenticità della persona, un rudimentale tentativo di affidarsi; se rispondesse freddamente, o in maniera artificiosa e pedissequa, questo indicatore ci suggerirebbe la mancanza di fiducia e l’attivazione di modalità manipolative difensive.

È possibile emettere diagnosi di disturbo di personalità in adolescenza?

L’esperienza clinica contestuale ci mostra come, oltre alla labilità con cui si emettono diagnosi differenti nei confronti dell’adolescente problematico, si riscontri di frequente, in realtà, la coesistenza di tratti comportamentali variegati all’interno di un’unica organizzazione momentanea di personalità, di un unico pattern di comportamento difensivo ricorrente, tale per cui la nostra riflessione deve poter presupporre la provvisorietà di ogni indicazione clinica e la trasversalità rispetto alle categorie nosografiche di riferimento. Quello che noi oggi potremmo superficialmente definire l’adolescente “borderline” presenta in realtà una costellazione di tratti, comportamenti e organizzazioni di personalità articolati intorno a parametri molteplici e diversificati. Studi recenti sulla funzione riflessiva e la capacità di mentalizzazione (Bateman, A; Fonagy, P. 2003; Fonagy, P.; Bateman, A., 2006) suggeriscono che questi profili di personalità si strutturino spesso intorno ad una impossibilità difensiva di accedere ai propri stati emotivi profondi per cui tutto quello che questi individui vivono e processano della loro esistenza quotidiana è nel presente, è sincronico, non prevede un prima e un dopo. Mancherebbero di una flessione condensata del proprio tempo esistenziale (Mariotti M., Bassoli F., Frison R., 2004), pertanto l’intensità di ogni vissuto sarebbe assoluta, totale, schiacciante, non ammetterebbe possibilità di abreazione, di risoluzione e scioglimento, perché non processabile razionalmente; quindi le loro reazioni si alternerebbero fra i due estremi dell’isolamento da un lato, o del dominio del contesto dall’altro; “bullo” o “vittima”.

Talvolta alle origini si possono riscontrare traumi prolungati che hanno infierito su vulnerabilità presenti e che andranno sostanziando ulteriormente l’impossibilità di una risoluzione, tali per cui, ad esempio, quello che spesso nell’infanzia si manifesta come tratto prodromico di incostanza nell’applicazione e nel rendimento scolastico, da ragazzi può evolvere in gravi insuccessi scolastici e lavorativi. Altro aspetto significativo è l’incapacità di operare un controllo sugli impulsi, il passaggio all’atto immediato, epifenomeno dell’incapacità di mentalizzare e processare cognitivamente l’emozione, di frapporvi un filtro razionale, per cui l’unico modo per gestirla diventa agirla. Può poi accompagnarsi a questo panorama comportamentale un profondo e costante stato di angoscia, pervasiva e statica, cristallizzata, differente dall’ansia transitoria, modulabile e temporalmente circoscritta; per questo agghiacciante stato di disarmo si usa il termine di “panansietà” (Stumpo, 2011): panico + ansia + angoscia, letta dal punto di vista comportamentale come una distribuzione agita su di un background di coartazione e blocco emotivo. Allo stesso modo, quindi, anche il gesto suicidario e autolesivo è spesso immediato e automatico, il frutto non premeditato di questo scarico comportamentale immediato dell’emozione. L’acting out viene ad attuarsi su ogni fronte; questi ragazzi esibiscono un’inconfutabile ed estrema volubilità, repentinità nel cambiamento; sbalzi assidui d’umore e una profonda incostanza emotiva. Sono disarmanti i vissuti interni di rabbia, vergogna e colpa (quelli che poi determinano la distruttività dell’agito), che possiamo ipotizzare essere giustificati in diversi casi da una mai completata identificazione genitoriale, da una non raggiunta maturità superegoica, da una incapacità di raffigurarsi cognitivamente gli stati mentali propri (su quelli dell’altro sono molto più abili) e di commisurare a questi le proprie reazioni comportamentali. Pertanto ci capita di assistere a relazioni interpersonali instabili, segnate da un’alternanza fuorviante di simbiosi e fuga, di ricerca di una vicinanza assidua che sfami quel profondo bisogno di accudimento, protezione e contenimento da una parte, e di rifiuto, allontanamento, distruzione dell’oggetto d’amore per difendersi dalla relazione, dal legame e dalla paura di perdersi e di sentire sgretolati i confini del proprio Sé, dall’altro; di ricerca di un’unione che sia esclusiva ed intensa, e di attuazione di una difesa aggressiva, altrettanto drammatica, che può sfociare nella devastazione del legame stesso e dell’induzione dell’altro all’abbandono.

Non sono infrequenti disturbi del pensiero, sfumati e costanti; ideazioni paranoidi o sintomi dissociativi transitori. L’anamnesi familiare può presentare spesso una storia di traumi o l’esposizione a fattori di rischio continuativi ed intensi, a cui il soggetto è stato sottoposto in maniera protratta (violenza assistita), di cui la maggior parte delle volte non è consapevole. Si tratta di situazioni forti che hanno acquistato la loro carica traumatica più nella reiterazione protratta su vasti archi temporali, che non piuttosto nell’intensità dell’evento immediato, a cui i soggetti possono non avere neanche assistito direttamente (da qui l’inconsapevolezza) ma che possono avere assorbito progressivamente attraverso la relazione con le figure di attaccamento; relazione il più delle volte improntata su climi familiari intensi e/o violenti che hanno nel tempo plasmato i modelli di esperienza interiore e di comportamento devianti.

La letteratura contemporanea mostra come da una disamina attenta della rassegna di casi ascrivibili a questo modello di organizzazione della personalità, si siano enucleate varie categorie organizzative del comportamento, trasversali ai cluster e alle categorie diagnostiche DSM, distinte per un tratto dominante, comunemente riscontrabili nella pratica clinica (fra i quali l’impossibilità di sottostare alle regole, l’uso di sostanze, il ricorso ad atti autolesivi, fattori di violenza/antisocialità, ecc). Gli aspetti critici su cui occorrerebbe indirizzare in prima istanza l’intervento terapeutico sarebbero, quindi, presumibilmente l’evanescenza del confine sé-altro, la conseguente angoscia profonda rispetto al Sé e la reazione difensiva del distacco da Sé; lo scarso esame di realtà; l’ascetismo e il rifiuto del proprio corpo; i tentativi di colpevolizzazione dell’altro, l’isolamento e la chiusura; la manipolazione e il controllo operato sulla relazione; la fissità del pensiero; la percezione di figure di attaccamento non sincere, ecc.

Il percorso clinico che sarebbe auspicabile impostare su questi profili di personalità e comportamento, dovrebbe seguire un obiettivo ricostruttivo, che svincoli il soggetto dall’immobilità in cui vessa, dal senso di ingabbiamento percepito in un qui-ed-ora castrante: tenendo presente che un ostacolo significativo potrebbe essere costituito dal fatto che questi ragazzi tenderanno a riportare tutto al presente, a riferire di non avere bisogno di ripercorrere il passato, per cui potrebbero non essere infrequenti attacchi, anche aspri, al setting e alla relazione. Uno strumento validante sarebbe la reintroduzione dell’uso del tempo e della narrazione, il ripercorso col ragazzo (la “rinarrazione”, come diciamo noi sistemici; Sluzki, 1991) della sua storia, il consentirgli di rievocare, ri-raccontare i suoi episodi, anche quelli più dolorosi, anche quelli che finora non si era potuto verbalizzare; far sì, sostanzialmente, che l’individuo possa assumere una modalità rielaborativa: riassumere su di sé la possibilità di un controllo e di un potere di connotazione delle proprie prerogative e dei propri accadimenti.

Attraverso quel passato, riletto nel presente, scoprire una diversa espressione sul volto di quello che è stato, risintonizzarsi in un presente sentito più proprio, e regalarsi un respiro di rinnovata speranza per il futuro.

Spunto di riflessione per il clinico, quindi, sarebbe l’aiutare questi ragazzi ad assumere una posizione attiva rispetto al proprio esistere, così da poter aiutare a compiersi quel complesso e dignitoso processo di acquisizione della propria indipendenza identitaria.

  • Bateman, A; Fonagy, P. (2003). "The development of an attachment based treatment program for borderline personality disorder". Bulletin of the Menniger Clinic (76): 187–211.
  • Cancrini L., La cura delle infanzie infelici. Viaggio nell’origine dell’oceano borderline Raffaello Cortina Editore, Milano, 2013.
  • Cancrini L., L’Oceano Borderline. Racconti di viaggio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006.
  • Cecchin G., "Revisione dei concetti di Ipotizzazione, Circolarità, Neutralita: un Invito alla Curiosità", Ecologia della Mente 5/1988, pp. 29–41.
  • Fonagy, P.; Bateman, A (2006). "Mechanism of change in mentalisation based treatment of borderline personality disorder". Journal of clinical Psychology (62): 411–430.
  • Mariotti M., Bassoli F., Frison R., Manuale di Psicoterapia Sistemica e Relazionale, edizione Sapere, Padova, 2004.
  • Sluzki C., La trasformazione terapeutica delle trame narrative, Terapia Familiare, 36, 1991.
  • Stumpo, Lezione scientifica: I disturbi di personalità in adolescenza. Iscra – Istituto di Psicoterapia Sistemica e Relazionale, Modena, 2011.

Dott.ssa Enrica Severi

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Questo articolo è stato scritto da Enrica Severi

enricaseveri

Psicologa e Psicoterapeuta

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